La bomba ambientale delle mascherine.

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L’emergenza Covid-19 ha provocato un vero e proprio terremoto a tutti i livelli. La nostra vita è stata sconvolta, molti sono stati finora i morti e purtroppo ancora ce ne saranno altri, aziende che sono in difficoltà, persone che sono in ansia per il proprio futuro lavorativo.
Stiamo analizzando diversi aspetti di quella che appare e per tanti è la madre di tutte le crisi, seconda forse solo a quella del 1929. 

Tra le emergenze abbiamo evidenziato anche quella ambientale dovuta al necessario utilizzo di mascherine e dei vari DPI e ci siamo resi conto che anche il Pianeta dovrà affrontare un problema complesso e potenzialmente devastante lo smaltimento delle mascherine. 

Sì perché nel prontuario diffuso a inizio aprile le mascherine non sono un prodotto riciclabile

Non per il momento almeno. 

Nessuno ha ancora pensato ad una raccolta apposita: neppure per le mascherine dei soggetti positivi al coronavirus che si curano in casa. 

La loro carica virale imporrebbe uno smaltimento speciale, come per i rifiuti ospedalieri, mentre al momento il ministero dice soltanto di metterle nell’indifferenziata «chiudendo tali rifiuti in due o tre sacchetti, uno dentro l’altro».

Sono davvero un numero incalcolabile, si immagina circa 130 milioni di pezzi al mese: 90 milioni di maschere monouso (quelle definite «chirurgiche», in realtà le più semplici, in tessuto non tessuto) e fra 30 e 40 milioni al mese del modello FFP2, che protegge di più e viene usato negli ospedali. 

Soltanto nelle prossime settimane — ha comunicato martedì il commissario all’emergenza Arcuri — l’Italia avrà 650 milioni di mascherine, ed è già in grado di produrne più di 2 milioni al giorno. Tenendo conto che, le mascherine chirurgiche sono monouso e non ci sono procedure, scientificamente validate, per la loro «disinfezione». 

Leggiamo dal sito del Corriere che le spiagge di Hong Kong e dell’isola di Soko sono già sommerse di mascherine scartate. Un gruppo di ricercatori dell’associazione Ocean Asia ne ha recuperate centinaia nel corso di alcune ricerche sull’inquinamento marino: «Sono relativamente nuove, quindi erano in mare da poco tempo», sottolineano. 

Considerato che per settimane i 7,4 milioni di abitanti della città ne hanno usate almeno due a settimana (e che Hong Kong sta affrontando un secondo lockdown per un ritorno dell’infezione), molte altre se ne troveranno nei mari. Le foto dei cumuli di mascherine sull’arenile hanno fatto rimbalzare l’allarme: il sito Energy Live sottolinea «l’effetto devastante che potrebbero avere sull’ambiente», in tutto il mondo. E non sono soltanto gli elastici in gomma delle mascherine a mettere a rischio la vita di pesci e mammiferi negli oceani. Perché la maggior parte delle maschere «sono fatte di poliestere o polipropilene, plastiche che non si degradano rapidamente». 

La Cina pare ne abbia vendute già 4 miliardi e ne produce 200 milioni al giorno e negli USA la produzione di N95 è stata portata a 100 milioni al mese e pare destinata ad aumentare. 

Sembra prematuro ma l’esperienza ci insegna che dovremmo iniziare a preoccuparci di una campagna di sensibilizzazione sullo smaltimento e magari immaginare una produzione di mascherine riutilizzabili per disinnescare una più che probabile e drammatica bomba ambientale